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La relazione medico-paziente tra pianificazione condivisa, appropriatezza e proporzionalità delle cure

Nella realizzazione di un trattamento sanitario, la previsione di un consenso informato ed espresso in contesto di relazionalità partecipata e condivisa, se, da un lato, ha il merito di tendere a porre fine alla pratica – meramente burocratica – di raccogliere l’accettazione del paziente con la sottoscrizione schematicamente apposta in un modulo/formulario, dall’altro lato, però, porge il fianco all’inevitabile constatazione della sua non facile attuazione, soprattutto nei luoghi di cura situati in realtà sociali complesse ed affollate, dove lo spazio della relazione medico-paziente viene ormai da tempo scandito e misurato a minuti.

Ed infatti, in questa diversa concezione la pianificazione condivisa delle cure deve fondarsi sul principio di appropriatezza e proporzionalità delle stesse. Esso non è esplicitamente enunciato in termini generali e, tuttavia, risulta latente nella ratio dell’intera disciplina a cominciare da quanto previsto al comma 2° dell’art. 2 a proposito delle terapie del dolore nella fase finale della vita, ove è prescritto che in essa “il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati”.

In verità, sarebbe utile precisare che il principio è da intendersi come richiamabile in ogni fase della somministrazione delle cure mediche e non già limitatamente alla fase finale della vita: è, infatti, insita nel concetto di “cura” la continua ricerca della sua appropriatezza in relazione alla complessiva condizione personale del paziente e non solo alla qualificazione clinica della patologia che lo ha colpito. Se così non fosse. infatti, si rischierebbe di somministrare cure e trattamenti “inutili” che, come tali, diventerebbero sproporzionati o capaci di generare sofferenze refrattarie in presenza delle quali il paziente avrebbe pure diritto di acconsentire al ricorso alle cure palliative, inclusa la sedazione profonda continua (ex art. 2, comma 2°, l. n. 219/17).

Proprio in considerazione della valenza generale del principio di adeguatezza e proporzionalità delle cure, appare, altresì, necessario dirimere la fondamentale questione circa i soggetti cui affidiamo tale valutazione ed i criteri di discernimento e che, prima facie, non possono che essere attribuiti al medico curante.

Al riguardo, per quanto la locuzione “appropriatezza” abbia acquisito una rilevanza normativa in occasione del piano Sanitario Nazionale 1998-200 divenendo uno dei criteri per la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza (d. lgs. 19 giugno 1999, n. 229), occorre rilevare come la sua concezione in termini di intervento sanitario preventivo diagnostico terapeutico o riabilitativo correlato al bisogno del paziente e fornito nei modi e nei tempi adeguati sulla base di standard riconosciuti con un bilancio positivo tra rischi e costi, potrebbe rivelarsi insoddisfacente nella materia de qua. Più inutile e rilevante per cogliere il significato più adatto nella “relazione di cura” si rivela piuttosto il concetto di “appropriatezza clinica”, intendendosi come tale il livello di efficacia di una prestazione o trattamento per un particolare paziente, scaturente sia dalle informazioni cliniche relative al paziente sia dalle conclusioni diagnostiche che orientano verso quel preciso intervento sanitario dal quale ci si attende beneficio per il paziente; il che implica, in primis, un’adeguata relazione interpersonale tra medico e paziente, volta alla conoscenza anche della sua condizione umana, e solo successivamente a questa la valutazione relativa al possibile livello di efficacia dei trattamenti somministrabili.

Si tratta di vedere in che termini ed entro quali limiti il medico – generico o specialista – finisca per incidere nella formulazione del contenuto della DAT, dovendosi necessariamente trovare il giusto punto di  equilibrio tra le informazioni più “adeguate” sui trattamenti medici affinché siano tali da consentire all’interessato di esercitare il suo fondamentale diritto all’autodeterminazione senza che debba ricorrere a dati ed elementi esterni che rischierebbero di non assicurare fondatezza e serietà.

Che la valutazione di appropriatezza debba essere propria del medico è più che comprensibile, stante la sua competenza in campo scientifico; ne è conferma anche il dettato della nuova legge laddove è previsto che, in caso di disaccordo tra il medico ed il rappresentante eventualmente nominato per la cura di un incapace in ordine ad un rifiuto delle cure, anche al medico è riconosciuta la legittimazione attiva per ricorrere al giudice tutelare perché si esprima al riguardo (v. art. 3, comma 5°); fermo restando, tuttavia, che, per un’esatta valutazione dell’“appropriatezza clinica”, occorre sempre passare necessariamente per la fase della “relazione umana”.

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