Il divieto di pubblicizzare beni e servizi quale sanzione interdittiva per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato
Sul piano dell’inquadramento generale della materia, va osservato che le misure interdittive previste nella norma appena richiamata sono sanzioni sostanzialmente incapacitanti poiché incidono, inibendola o limitandola, sull’attività dell’ente.
Ad esse si riconoscono generalmente una pluralità di finalità, cd. generali e special-preventive, vale a dire tanto di carattere collettivo, riguardanti l’intera platea dei destinatari delle norme incriminatrici, quanto di carattere individuale, riguardanti il singolo autore del fatto illecito.
Sotto il primo versante, tali sanzioni – soprattutto nella fase comminatoria edittale – appaiono orientate al soddisfacimento di scopi cd. general-preventivi negativi di natura deterrente e dissuasiva, puntando a distogliere tutti gli enti dal coinvolgimento nella commissione di reati nel loro interesse o vantaggio, in considerazione della ridotta capacità intimidatoria della sola sanzione pecuniaria potenzialmente degradabile a meri ‘rischio di impresa’, o ‘costo di gestione’ da parte degli enti stessi.
Sotto il secondo versante, invece, esse tendono al perseguimento di finalità special-preventive tanto negative quanto positive. Per un verso, infatti, mirano alla neutralizzazione di un’attività funzionale o connessa a quella in cui si è verificata la commissione del reato e, per altro verso, in maniera prevalente, alla ‘rieducazione’ dell’ente ed alla sua incentivazione a rimuovere il deficit organizzativo ad cui è dipesa la realizzazione di un illecito penale da parte di un apicale o di un dipendente nel suo interesse o vantaggio.
Delimitazione dell’ambito di estensione della misura e individuazione della nozione di pubblicità vietata
Occorre ora approfondire l’indagine al fine di meglio delimitare l’ambito e l’estensione del divieto ed individuare così la nozione di pubblicità che ne forma oggetto. Nel far ciò occorre tener conto anche dei richiamati principi di legalità e tassatività che, come si è visto, connotano il sistema sanzionario nel cui novero rientra la sanzione interdittiva in esame.
A questo fine, sotto un primo riguardo, va precisato che il riferimento, contenuto nell’enunciazione della condotta vietata, ai «beni e servizi», deve essere rettamente inteso, nel senso che il divieto non si dirige verso il singolo o i singoli beni o servizi in sé considerati, ma si riferisce ad essi quali «prodotti» dell’operatività economica dell’impresa, che viene sanzionata inibendole la possibilità di pubblicizzare i propri beni e servizi, così da ridurne le occasioni di profitto.
Da un angolo di osservazione parzialmente diverso, il testuale riferimento del divieto di pubblicità ai «beni e servizi» impone di verificare, su di un piano più generale, se sia possibile introdurre, ai fini della delimitazione dell’ambito di applicazione della sanzione, un criterio fondato sul contenuto della comunicazione pubblicitaria.
Una peculiare tipologia di comunicazione, che non rientra invece nella nozione di pubblicità di beni e servizi di cui all’art. 9, comma 2, lett. e), d.lgs. 231/2001, è quella che va sotto la denominazione, per la verità non del tutto appropriata, di «pubblicità sociale».
Si presenta come «pubblic service advertising», vale a dire, con comunicazione che intende fornire, esclusivamente nell’interesse collettivo un’informazione imparziale su tematiche sensibili, come, ad es. il risparmio energetico, la sicurezza stradale o l’uso di sostanze alcoliche. Le sue caratteristiche possono sintetizzarsi con la triplice locuzione inglese: no commercial, no profit, no product.
Osservazioni conclusive
Appare limitante, e non sistematicamente corretto, ricondurre l’operatività della sanzione in esame esclusivamente all’interno di un sistema penalistico, in quanto, come si è già accennato, la sanzione non appare meramente afflittiva, ma legata alla protezione di interessi collettivi che potrebbero essere lesi dalla continuazione dell’attività commerciale dell’ente. Tale considerazione apre la strada per il richiamo ad un fenomeno diverso: quello di matrice comunitaria delle cd. pratiche commerciali sleali.
Il diritto comunitario, come è noto, ha imposto al nostro legislatore il definitivo superamento dell’assioma in forza del quale la repressione della pubblicità scorretta deve mirare esclusivamente a tutelare l’interesse degli imprenditori ad una concorrenza leale. Vale la pena aggiungere che tale intento è stato ribadito da ultimo della direttiva comunitaria 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, la quale si applica, ai sensi dell’art. 6, a tutte le transazioni il cui intento sia quello di condizionare la «decisione di natura commerciale» del consumatore.